Medici e pazienti riuniti a Roma per discutere delle azioni e delle buone pratiche di prevenzione mirate a combattere questa emergenza sanitaria, che solo nel nostro Paese causa il decesso di circa 8mila persone all’anno
ROMA – Prevenire il 30% delle infezioni contratte dai pazienti durante e dopo il ricovero ospedaliero. È l’obiettivo di medici, politici e associazioni pazienti, riuniti in questi giorni a Roma in occasione del convegno “Focus sulla prevenzione delle infezioni ospedaliere”, per arginare quest’emergenza sanitaria, che conta mezzo milione di casi all’anno e che uccide – numeri alla mano – più degli incidenti stradali: secondo i dati dello European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) sarebbero circa 8mila le morti in Italia dovute alle infezioni ospedaliere dello scorso anno, contro poco più di 3mila dovute alla strada.
“Le infezioni ospedaliere rappresentano un problema complesso, caratterizzato da molteplici fattori, incluso l’eccessivo utilizzo degli antibiotici, che ha portato nel tempo allo sviluppo di malattie infettive resistenti a questa classe di farmaci”, spiega Alessandro Cassini, medico specializzato in epidemiologia e sanità pubblica, che fa parte della Infection Prevention and Control Global Unit dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
I numeri in Italia
Ovviamente non tutte le infezioni ospedaliere sono legate al problema della resistenza agli antibiotici, ma quest’ultimo rimane un aspetto prioritario su cui agire in maniera trasversale: “Un terzo circa di tutte le infezioni nosocomiali e correlate all’assistenza possono avere una certa resistenza agli antibiotici, e in Italia questo rappresenta un problema sanitario importante. Su 33mila morti stimati nell’Unione Europea ogni anno – puntualizza Cassini – circa un terzo avvengono in Italia”. Un dato che pone il nostro Paese, insieme alla Grecia, a essere quello nell’Unione Europea in cui l’antibiotico-resistenza ha il maggiore impatto sulla salute della popolazione.
“Nel nostro Paese è cresciuto il numero di infezioni resistenti per lo più a carbapenemi, una classe di antibiotici a largo spettro usati comunemente in ospedale ma che, dalle stime che abbiamo, sono utilizzati troppo e in modo inadeguato. Dal 2007 le morti correlate all’antibiotico-resistenza sono aumentate di 2,5 volte e in Italia di 3,6 volte”. Si tratta di un problema che si ripercuote non soltanto sull’aspetto sanitario, ma anche su quello economico e l’Italia è il paese Ocse – l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – in cui i costi sanitari sono i più alti: “Considerando l’impatto su disabilità e morti premature – spiega Cassini – le infezioni correlate all’assistenza hanno un impatto due volte maggiore rispetto a tutte le altre malattie infettive messe insieme. Il problema principale dell’antibiotico-resistenza è che è difficile da gestire: non ci sono molti altri antibiotici che funzionano in questi casi, e quindi specialmente nei pazienti con uno stato di salute compromesso, queste infezioni possono ampiamente aumentare la probabilità di morte, sebbene va detto che il problema delle infezioni ospedaliere riguarda anche i casi in cui il microrganismo è suscettibile agli antibiotici”.
Secondo le stime i pazienti avrebbero una probabilità del 6% di contrarre le infezioni durante il ricovero ospedaliero, come infezioni urinarie, respiratorie, infezioni del sito chirurgico. Ogni step dell’ospedalizzazione non va sottovalutato e la riduzione dei rischi diventa un aspetto fondamentale: le tecniche più invasive – come gli interventi chirurgici, i cateteri, gli strumenti endoscopici – rappresentano una condizione di non poco conto nella suscettibilità alle infezioni nei pazienti, così come il contatto diretto e indiretto da persona a persona, tramite le mani, colpi di tosse, o appunto l’utilizzo di oggetti contaminati (oggetti comuni, strumenti diagnostici o assistenziali).
Quello delle infezioni correlate all’assistenza è un fenomeno rilevante, anche in termini economici: “I costi di trattamento di una singola infezione vanno dai 5 ai 9mila euro, e in Europa il costo annuale di queste infezioni è stimato attorno ai 7 miliardi di euro”, spiega Alberto Firenze, Presidente Nazionale dell’Associazione Hospital & Clinical Risk Managers, che riflette: “Le infezioni correlate all’assistenza rappresentano una criticità che va risolta a monte e in modo trasversale da medici, aziende, pubblico e privato”.
Che cosa fare
Sorveglianza e controllo sono le due parole d’ordine emerse durante l’incontro, necessarie a far fronte al problema delle infezioni correlate all’assistenza. Perché le buone pratiche – tra cui il corretto lavaggio delle mani degli operatori e dei parenti, il controllo della pulizia ambientale, la vaccinazione degli operatori sanitari, il mantenimento della normotermia nei pazienti – e i protocolli clinici e operativi ci sono, ma vanno applicati. “In Italia – continua Cassini – c’è un piano nazionale dedicato al tema dell’antibiotico-resistenza ed è importante che la sua attuazione nel mondo sanitario deve essere implementata in modo omogeneo e con la prospettiva di instaurare una buona cultura della sicurezza del paziente, sia dal punto di vista terapeutico – in quali casi è bene o meno utilizzare gli antibiotici, o eventualmente che tipo di antibiotico utilizzare – sia dal punto di vista della gestione del paziente, per ridurre il rischio di infezioni correlate all’assistenza”.
Ma l’aspetto su cui forse bisogna lavorare di più per far fronte in maniera più efficace all’aumento delle infezioni ospedaliere è il monitoraggio, “verificare cioè che tutte le misure di sicurezza, ben descritte nelle linee guida, siano messe in pratica, monitorate e discusse insieme agli operatori sanitari. Questo – sottolinea Cassini – è un aspetto fondamentale; gli operatori sanitari dovrebbero ricordarsi che mettendo in atto le strategie preventive di queste infezioni, salverebbero molte vite umane, tanto quanto i chirurghi che operano sui pazienti”.